Dai ricordi d'infanzia:
LA CORTE DI DON ERNESTO E LA CASA DEI NONNI PATERNI
Affacciata su un vicolo più grande, oggi denominato vico Sant’Antonio, a fianco all’osteria (puteca) della signora Vita Giannuzzi, per tutti “la Ita”, c’era una piccola corte, conosciuta dai Borgagnesi come la “Curte te Don Ernestu”.
Nella
corte si affacciavano tre case due delle quali a “cannizzu”, con il tetto fatto
con assi portanti di legno grezzo, sulle quali poggiava il c.d. “cannizzo” una specie di sottotetto composto da
cannicciato isolato con uno strato di calcina impastata con acqua e terra
(volo) ricoperto con tegole in argilla (imbrici).
Nella
corte in cui vivevano altre due famiglie si accedeva, attraversando un arco in
pietra calcarea eroso dal tempo, scendendo due grandi scalini di pietra consumati
al centro.
Sulla
destra dell’atrio vi era una stanza e sul muro frontale alla porta di entrata vi erano
apposti alcuni anelli in ferro e una piccola mangiatoia in pietra, segno che la
stessa era stata precedentemente utilizzata come stalla per il riparo degli
animali da soma. Di fianco alla stalla, il giardino della nunna 'Ndata
(Addolorata) te mesciu Ninu in arte fabbro ferraio.
Sulla
sinistra un atrio scoperto adibito a deposito della legna da ardere, delle
fascine (sarcine) di rami d’ulivo e di tralci di vite (sarmente) che venivano utilizzate
sia per accendere agevolmente il fuoco del camino che per il riscaldare velocemente
il forno in pietra in cui le famiglie cuocevano a turno il pane fatto in casa.
Al
centro della corte, spostato sulla sinistra, vi era un grande pozzo profondo
una quindicina di metri, la cui bocca (l’uccale) era sormontata da due
imponenti colonne di pietra sulle quali poggiava, sostenuta da due assi in
legno forate, una ruota con scanalatura (la trozzula) intorno alla quale
scorreva la fune con il secchio di latta (caletta), con cui si attingeva l’acqua dal fondo. Attraversando una delle colonne, una piccola pilozza in pietra che terminava a forma di imbuto, collegava il pozzo ad una pila di grandi dimensioni.
La
bocca (l’uccale) del pozzo di forma rettangolare era costruito in pietra leccese dura e
presentava sui bordi vari solchi scavati dallo scorrimento delle funi, le cui
profondità evidenziavano la vetustà del pozzo e la mancanza in tempi precedenti
della (trozzula).
A
noi più piccoli era severamente vietato sporgersi oltre per guardare il fondo o
avvicinarsi troppo per guardare il salire e scendere della “caletta”.
Durante
l’estate quando il caldo la faceva da padrone, sul fondo di esso veniva calato
il cocomero (sarginiscu) o la “menza” con l’acqua potabile per tenerli al
fresco.
A
quei tempi, negli anni sessanta, il pozzo o la cisterna in cui confluivano le acque piovane nei pressi della casa, erano una sorta di privilegio, in quanto consentivano di
avere a portata di mano l’acqua per gli usi domestici o alimentari.
In molti
di essi venivano gettate dai proprietari alcune anguille, secondo i quali,
nutrendosi di larve, insetti e girini, rendevano l’acqua piovana per c.d. “potabile”.
Nelle
case in cui non era presente il pozzo o la cisterna, l’acqua potabile veniva attinta
dalla fontana pubblica a turno tra i grandi e i piccoli, facendo uso di contenitori
in lamiera zingata, le “Menze” e le “menziceddhre”.
Le dimensioni ed il peso a pieno carico dei suddetti recipienti, erano spesso sproporzionati alla forza dei più piccoli o anziani, costringendoli a fare varie soste nel tragitto di ritorno verso casa.
Le dimensioni ed il peso a pieno carico dei suddetti recipienti, erano spesso sproporzionati alla forza dei più piccoli o anziani, costringendoli a fare varie soste nel tragitto di ritorno verso casa.
Il
comando di recarsi alla fontana per la provvista dell’acqua se dato da una persona più anziana, era inderogabile e
non poteva essere rifiutato o rimandato per nessun terzo motivo.
Sulla
sinistra della porta d’entrata all’abitazione dei nonni paterni, per buona
parte dell’anno, faceva sfoggio di bellezza indescrivibile, una grande pianta
di Ipomea violacea (campanella) che, tenuta ben salda con chiodi e corde, si estendeva
su gran parte della facciata fino a sormontare la vecchia porta
in legno arsa dal sole ed erosa dal tempo. La facciata di un bianco accecante era lattata con pittura artigianale ottenuta dallo scioglimento della calce vergine in acqua,
Altri
vasi in terracotta (limbi) o contenitori in lamiera in disuso (secchi o barattoli delle sarde), posti su pietre
o sezioni di tronchi in legno, adornavano l’intero atrio con piante di geranio,
garofani, gigli, zinie, rose e tantissime bocche di leone di vari colori.
All’interno,
la “casa” dei nonni paterni, era composta da una grande stanza utilizzata come
(open space), in cui erano presenti, sulla destra della porta di entrata, un
grande letto a due piazze con testiera e pediera in ferro battuto e (cistieddhri),
cavalletti in ferro battuto su cui poggiavano delle assi di legno e il
giaciglio (saccune) fatto con il fogliame delle pannocchie di granoturco.
Sotto
il letto il contenitore delle friselle lo “Stangatu” e lo “Stangatieddhru” in
cui venivano conservati i fichi secchi, che di tanto in tanto venivano depredati, nottetempo, del loro contenuto.
Sui
lati del letto due comodini in arte povera, su cui erano poggiati alcuni
oggetti tra cui, un’effige della Madonna, un rosario, un piccolo vangelo, alcune
immaginette sacre e una candela.
Sul
muro dietro la testiera (capitale) una croce in legno e su quello di fronte un
armadio e in alto alcuni quadri riportanti immagini sacre e scene bibliche.
Vicino
al letto, sulla destra, una (specchiera) o (toletta) con un grande specchio,
sul quale erano poggiati da un lato una spazzola in setola, (la scupetta) un
pettine grande (la pittinessa), un pettine più piccolo, (lu pittininu), sull’altro
lato la bottiglietta slanciata della brillantina (Linetti) ed il profumo (Pino
silvestre) con la sua speciale bottiglia verde a forma di pigna inseparabili vezzi del nonno
Antonio, conosciuto da tutti come (lu 'Ntoni Specchia).
Al
centro della stessa stanza un tavolo in legno povero con quattro sedie impagliate (la
banca), coperta con una tovaglia damascata orlata da una grande frangia, con al
centro un grande vaso portafiori posto sopra un centrino lavorato all’uncinetto
e un piccolo posacenere.
La "banca", era dotata di un grande cassettone estraibile in cui erano conservate le
tovaglie e le stoviglie “buone” da utilizzare nelle grandi occasioni e tenute rigorosamente
separate da quelle di uso comune usate giornalmente.
Quest’ultima
era un elemento d’arredo comune in quasi tutte le case veniva anche utilizzata
come scrigno per celare granaglie, legumi o altri beni da tenere, per ovvi e
giustificati motivi, nascosti agli occhi estranei alla famiglia.
Di
fronte, sulla sinistra della porta attraverso la quale si accedeva al giardino,
era presente una grande botte di vino, che inebriava in maniera perenne l’aria
della stanza con il profumo del mosto o del vino, secondo la stagione.
(Infatti,
in quei tempi il prezioso liquido indispensabile per la sopravvivenza, veniva
usato e a volte abusato al termine della giornata di lavoro nei campi per
risollevare il fisico e per lenire i dolori muscolari causati dalle pesanti
fatiche sostenute.
I
danni collaterali causati dall’alcool contenuto nel vino, non sempre genuino, come
litigi frequenti nei pressi delle osterie (Puteche) e le risse in famiglia,
erano all’ordine del giorno, specialmente la sera.)
Sulla
sinistra tra la porta di accesso al cucinino e la stanzetta adibita a
dormitorio per i figli e i nipoti era posizionata la "Càscia" (cassapanca), le
cui semplici linee riconducevano alla modestia contadina della famiglia,
contenente lenzuola e coperte di uso comune e quelle “buone” da usare solo ed
esclusivamente nelle grandi occasioni.
Nella
stanza adibita a dormitorio per i figli era presente una botte per il vino, un grande letto sormontato
da una grande (saccune), un lettino più
piccolo e un (somì) avente la duplice funzione di letto e divano.
Nel
grande letto, gli zii, essendo più grandicelli, dormivano in un senso mentre noi
nipoti più piccoli dormivamo nel senso opposto con la testa ai piedi del letto.
(Questa
disposizione era spesso motivo di lamentele e proteste da parte dei più piccoli
e vi lascio immaginare il perché.)
Sotto
il letto o grande giaciglio, venivano riposti anche i sacchi di grano o orzo e
le varie granaglie da cui spesso, con il passare del tempo e con il caldo
estivo, si sviluppava una sorta di allergene, la c.d. “foca”, che per contatto provocava
un eritema, un prurito insopportabile sulla pelle e, nei casi più gravi, febbre
alta.
Il
locale adibito a cucinino era piccolo e angusto e conteneva al suo interno lo
stretto necessario per cucinare i cibi al fuoco del camino.
Un
monumentale focolare consentiva a noi più piccoli di stare seduti al suo
interno sopra dei sedili in legno (ancutieddhri) o sopra piccoli appoggi fatti
di pietra (pisoti), per godere del caldo nei giorni più freddi.
Intorno
ad esso si svolgeva la maggior parte della giornata, sia per riscaldarsi nelle
giornate fredde che per cucinare, riscaldare l’acqua con il (quatarotto) sul
treppiède o cuocere i legumi, brodi e verdure nelle “pignate” in terracotta.
Sulle
colonne laterali che sostenevano la trave portante del camino (mbolicu) varie
incisioni orizzontali, poste ad altezze diverse, raccontavano il passare degli
anni e la nostra contemporanea crescita in altezza.
Da
una porta più piccola vicino la botte del vino, si accedeva, scendendo due
scalini, ad un piccolo giardino in cui venivano allevati in libertà conigli,
galline oche e altri animali da cortile in compagnia di una decina di
tartarughe.
Sulla
sinistra era presente una grande “Pila” in pietra leccese in cui venivano
lavati a turno le stoviglie o i panni.
Sulla
sinistra, appoggiato al muro di cinta, un grande otre in disuso alto circa due
metri e sulla sua destra il pollaio.
Nella
parte destra, in fondo all'angolo più lontano, una piccola fossa delimitata da
blocchi di tufo e attraversata da un asse di legno, costituiva il bagno comune da
utilizzare per le esigenze corporali.
Di
fronte un grande albero di mandarino, addossato al muro di cinta, forniva nel
mese di marzo i suoi frutti pregiati.
Questo
è il ricordo che conservo tuttora della corte di Don Ernesto e della casa in cui vivevano i nonni paterni con i miei zii e in cui ho vissuto anch'io e i mie cugini per qualche anno, avendo i genitori emigrati in Svizzera.
La Corte e la case descritte, lasciate in decadenza per molti anni, sono state demolite negli anni settanta.
La Corte e la case descritte, lasciate in decadenza per molti anni, sono state demolite negli anni settanta.