martedì 11 giugno 2019

A Wilma..



All'amica Wilma Vedruccio, insegnante, scrittrice, poetessa e operatrice culturale salentina.
Donna colta, tenace, appassionata di tradizioni popolari e ferma sostenitrice del recupero della sua terra, ricca per natura, storia e cultura.
Amava intensamente la vita cogliendone la bellezza nella natura, nella saggezza di chi opera per la salvaguardia delle cose semplici e vere.
Attivissima sul web con lo pseudonimo di Mitilo Salentino e fondatrice del gruppo "Fra le scrasce" su Facebook.

Na “scrascia” nu“more” mai…

Mo te ndai scijuta senza nuddhru avvisu
versu la luce te lu paradisu…
e a nnui subbra a sta Terra ndai lassati,
comu orfani te mamma e cu lli cori “scrasciati”.

Ma gheu oju te immagginu felice
cull’Angeli, li Santi e tutti li paesani in Santa pace
ca ai girandu passu passu a Campi Elisi
suscitandu a ci te guarda ilarità e sorrisi.

“Ma ci ete quista quai,
se ddumandane stupiti,
ca  guardanduse alli piedi
ae  caminandu chianu chianu
cu llu tablet ddumatu
sempre a manu?”

“Ce ae facendu te ste parti,
a dru simu tutti morti,
sta cristiana istuta in modu stranu
cu la penna e lu taccuinu sempre a manu
e fotografa ogni cosa,
farfalle, fiuri, frutti e chiante a iosa?”

“Ci ete sta signura ca ae
scrivendu nomi strani
e se appunta cu la penna tante cose
sull’erve, sulle chiante,
sulli  fiuri e sulle rose?”

“A mie me pare ca l’aggiu ista
quand’era ancora in vita,
intra a na scola elementare
a dhru era la maestra preferita,
ca a modu sou,
 insegnava alli vagnoni
cu bessane te animu chiù bboni
e cu portane rispettu alla natura
pè na vita chiù sana e chiù sicura.”

“Si ..si.. nu tegnu dubbi la Wilma ete!
Ete propriu iddhra!!!
la fija te la Mema e de lu Pippi
 ca stiane alla Spicchiuddhra.”

“Ha scrittu puru libri
e cunti cu na bella morale
ca nvitane ci legge allu pinsare
ca lu creatu è bellu e l’imu conservare.”

Ntra n’attimu se crea na prucissione
te tanta gente ca già te ole bene
 e a tutti te presenti cu nu bellu sorrisu
mentre sta pensi già cu faci
lu gruppu te le “Scrasce in Paradisu”.

Te immaginu cusì ...amica mia
leggiadra e luminosa comu na stella
ca te fiuru a fiuru uli leggera comu a na farfalla,
sulli campi gialli te elicrisu,
insieme allu gruppu te le ” Scrasce in Paradisu”.

Ciao Wilma…

(Giuseppe RUSSO)
  

(Traduzione)

Una pianta di rovo non muore mai…

Adesso te ne sei andata senza nessun avviso
verso la luce del paradiso…
e a noi su questa terra ci hai lasciati,
come orfani di mamma e con i cuori “graffiati”.

Ma io voglio immaginarti felice
con gli Angeli, i Santi e tutti i tuoi paesani in Santa pace
che vai girando passo passo per i Campi Elisi,
suscitando in chi ti guarda ilarità e sorrisi.

“Ma chi è questa signora,
si domandano stupiti,
che guardandosi ai piedi
va camminando piano piano
con il tablet acceso
sempre in mano?”

“Cosa va facendo da queste parti,
dove siamo tutti morti,
questa persona vestita in modo strano
con la penna e il taccuino sempre in mano
e fotografa ogni cosa,
farfalle, fiori, frutti e piante a iosa?”

“Chi è questa signora che va
scrivendo nomi strani
e si appunta con la penna tante cose
sull’erbe, sulle piante, sui fiori e sulle rose?”

“A me sembra di averla vista
quand’era ancora in vita,
in una scuola elementare
dov’era la maestra preferita che,
 a modo suo,
insegnava ai bambini
ad essere d’animo più buoni
e a portar rispetto alla natura
per una vita più sana e più sicura.”

“Si!…si!…non ho dubbi è la Wilma!
E’ proprio lei!!!
La figlia di Mema e di Giuseppe
che stavano alla masseria della “Specchiulla.”

“Ha scritto anche libri e racconti
con una bella morale
che invitano chi li legge a pensare
che il creato è bello e lo dobbiamo conservare.”

In un’attimo si crea una processione
di tanta gente che già ti vuole bene
e a tutti ti presenti con un bel sorriso,
mentre stai pensando già di fare
il gruppo delle “Scrasce in Paradiso”.

Ti immagino così… amica mia
leggiadra e luminosa come una stella
che vai di fiore in fiore come una farfalla,
sui campi gialli di elicriso
insieme al gruppo delle “Scrasce in Paradiso”.


Ciao Wilma


sabato 9 marzo 2019

LA CORTE DI DON ERNESTO E LA CASA DEI NONNI PATERNI



Dai ricordi d'infanzia:

LA CORTE DI DON ERNESTO E LA CASA DEI NONNI PATERNI


Affacciata su un vicolo più grande, oggi denominato vico Sant’Antonio,  a fianco all’osteria (puteca) della signora Vita Giannuzzi, per tutti “la Ita”, c’era una piccola corte, conosciuta dai Borgagnesi come la “Curte te Don Ernestu”.

Nella corte si affacciavano tre case due delle quali a “cannizzu”, con il tetto fatto con assi portanti di legno grezzo, sulle quali poggiava il c.d. “cannizzo” una specie di sottotetto composto da cannicciato isolato con uno strato di calcina impastata con acqua e terra (volo) ricoperto con tegole in argilla (imbrici).
Nella corte in cui vivevano altre due famiglie si accedeva, attraversando un arco in pietra calcarea eroso dal tempo, scendendo due grandi scalini di pietra consumati al centro.

Sulla destra dell’atrio vi era una stanza e sul muro frontale alla porta di entrata vi erano apposti alcuni anelli in ferro e una piccola mangiatoia in pietra, segno che la stessa era stata precedentemente utilizzata come stalla per il riparo degli animali da soma. Di fianco alla stalla, il giardino della nunna 'Ndata (Addolorata) te mesciu Ninu in arte fabbro ferraio.

Sulla sinistra un atrio scoperto adibito a deposito della legna da ardere, delle fascine (sarcine) di rami d’ulivo e di tralci di vite (sarmente) che venivano utilizzate sia per accendere agevolmente il fuoco del camino che per il riscaldare velocemente il forno in pietra in cui le famiglie cuocevano a turno il pane fatto in casa.

Al centro della corte, spostato sulla sinistra, vi era un grande pozzo profondo una quindicina di metri, la cui bocca (l’uccale) era sormontata da due imponenti colonne di pietra sulle quali poggiava, sostenuta da due assi in legno forate, una ruota con scanalatura (la trozzula) intorno alla quale scorreva la fune con il secchio di latta (caletta), con cui si attingeva l’acqua dal fondo. Attraversando una delle colonne, una  piccola pilozza in pietra che terminava a forma di imbuto, collegava il pozzo ad una pila di grandi dimensioni.
La bocca (l’uccale) del pozzo di forma rettangolare era costruito in pietra leccese dura e presentava sui bordi vari solchi scavati dallo scorrimento delle funi, le cui profondità evidenziavano la vetustà del pozzo e la mancanza in tempi precedenti della (trozzula).

A noi più piccoli era severamente vietato sporgersi oltre per guardare il fondo o avvicinarsi troppo per guardare il salire e scendere della “caletta”.

Durante l’estate quando il caldo la faceva da padrone, sul fondo di esso veniva calato il cocomero (sarginiscu) o la “menza” con l’acqua potabile per tenerli al fresco.

A quei tempi, negli anni sessanta, il pozzo o la cisterna in cui confluivano le acque piovane nei pressi della casa, erano una sorta di privilegio, in quanto consentivano di avere a portata di mano l’acqua per gli usi domestici o alimentari.

In molti di essi venivano gettate dai proprietari alcune anguille, secondo i quali, nutrendosi di larve, insetti e girini, rendevano l’acqua piovana per c.d. “potabile”.

Nelle case in cui non era presente il pozzo o la cisterna, l’acqua potabile veniva attinta dalla fontana pubblica a turno tra i grandi e i piccoli, facendo uso di contenitori in lamiera zingata, le “Menze” e le “menziceddhre”.  
Le dimensioni ed il peso a pieno carico dei suddetti recipienti, erano spesso sproporzionati alla forza dei più piccoli o anziani, costringendoli a fare varie soste nel tragitto di ritorno verso casa.

Il comando di recarsi alla fontana per la provvista dell’acqua se dato da una persona più anziana, era inderogabile e non poteva essere rifiutato o rimandato per nessun terzo motivo.

Sulla sinistra della porta d’entrata all’abitazione dei nonni paterni, per buona parte dell’anno, faceva sfoggio di bellezza indescrivibile, una grande pianta di Ipomea violacea (campanella) che, tenuta ben salda con chiodi e corde, si estendeva su gran parte della facciata fino a sormontare la vecchia porta in legno arsa dal sole ed erosa dal tempo. La facciata di un bianco accecante era lattata con pittura artigianale ottenuta dallo scioglimento della calce vergine in acqua,

Altri vasi in terracotta (limbi) o contenitori in lamiera in disuso (secchi o barattoli delle sarde), posti su pietre o sezioni di tronchi in legno, adornavano l’intero atrio con piante di geranio, garofani, gigli, zinie, rose e tantissime bocche di leone di vari colori.

All’interno, la “casa” dei nonni paterni, era composta da una grande stanza utilizzata come (open space), in cui erano presenti, sulla destra della porta di entrata, un grande letto a due piazze con testiera e pediera in ferro battuto e (cistieddhri), cavalletti in ferro battuto su cui poggiavano delle assi di legno e il giaciglio (saccune) fatto con il fogliame delle pannocchie di granoturco.

Sotto il letto il contenitore delle friselle lo “Stangatu” e lo “Stangatieddhru” in cui venivano conservati i fichi secchi, che di tanto in tanto venivano depredati, nottetempo, del loro contenuto.

Sui lati del letto due comodini in arte povera, su cui erano poggiati alcuni oggetti tra cui, un’effige della Madonna, un rosario, un piccolo vangelo, alcune immaginette sacre e una candela.

Sul muro dietro la testiera (capitale) una croce in legno e su quello di fronte un armadio e in alto alcuni quadri riportanti immagini sacre e scene bibliche.

Vicino al letto, sulla destra, una (specchiera) o (toletta) con un grande specchio, sul quale erano poggiati da un lato una spazzola in setola, (la scupetta) un pettine grande (la pittinessa), un pettine più piccolo, (lu pittininu), sull’altro lato la bottiglietta slanciata della brillantina (Linetti) ed il profumo (Pino silvestre) con la sua speciale bottiglia verde a forma di pigna inseparabili vezzi del nonno Antonio, conosciuto da tutti come (lu 'Ntoni Specchia).
 
Al centro della stessa stanza un tavolo in legno povero con quattro sedie impagliate (la banca), coperta con una tovaglia damascata orlata da una grande frangia, con al centro un grande vaso portafiori posto sopra un centrino lavorato all’uncinetto e un piccolo posacenere.

La "banca", era dotata di un grande cassettone estraibile in cui erano conservate le tovaglie e le stoviglie “buone” da utilizzare nelle grandi occasioni e tenute rigorosamente separate da quelle di uso comune usate giornalmente.

Quest’ultima era un elemento d’arredo comune in quasi tutte le case veniva anche utilizzata come scrigno per celare granaglie, legumi o altri beni da tenere, per ovvi e giustificati motivi, nascosti agli occhi estranei alla famiglia.

Di fronte, sulla sinistra della porta attraverso la quale si accedeva al giardino, era presente una grande botte di vino, che inebriava in maniera perenne l’aria della stanza con il profumo del mosto o del vino, secondo la stagione.

(Infatti, in quei tempi il prezioso liquido indispensabile per la sopravvivenza, veniva usato e a volte abusato al termine della giornata di lavoro nei campi per risollevare il fisico e per lenire i dolori muscolari causati dalle pesanti fatiche sostenute.
I danni collaterali causati dall’alcool contenuto nel vino, non sempre genuino, come litigi frequenti nei pressi delle osterie (Puteche) e le risse in famiglia, erano all’ordine del giorno, specialmente la sera.)

Sulla sinistra tra la porta di accesso al cucinino e la stanzetta adibita a dormitorio per i figli e i nipoti era posizionata la "Càscia" (cassapanca), le cui semplici linee riconducevano alla modestia contadina della famiglia, contenente lenzuola e coperte di uso comune e quelle “buone” da usare solo ed esclusivamente nelle grandi occasioni.

Nella stanza adibita a dormitorio per i figli era presente una botte per il vino, un grande letto sormontato da una  grande (saccune), un lettino più piccolo e un (somì) avente la duplice funzione di letto e divano.

Nel grande letto, gli zii, essendo più grandicelli, dormivano in un senso mentre noi nipoti più piccoli dormivamo nel senso opposto con la testa ai piedi del letto.
(Questa disposizione era spesso motivo di lamentele e proteste da parte dei più piccoli e vi lascio immaginare il perché.)

Sotto il letto o grande giaciglio, venivano riposti anche i sacchi di grano o orzo e le varie granaglie da cui spesso, con il passare del tempo e con il caldo estivo, si sviluppava una sorta di allergene, la c.d. “foca”, che per contatto provocava un eritema, un prurito insopportabile sulla pelle e, nei casi più gravi, febbre alta.

Il locale adibito a cucinino era piccolo e angusto e conteneva al suo interno lo stretto necessario per cucinare i cibi al fuoco del camino.

Un monumentale focolare consentiva a noi più piccoli di stare seduti al suo interno sopra dei sedili in legno (ancutieddhri) o sopra piccoli appoggi fatti di pietra (pisoti), per godere del caldo nei giorni più freddi.

Intorno ad esso si svolgeva la maggior parte della giornata, sia per riscaldarsi nelle giornate fredde che per cucinare, riscaldare l’acqua con il (quatarotto) sul treppiède o cuocere i legumi, brodi e verdure nelle “pignate” in terracotta.

Sulle colonne laterali che sostenevano la trave portante del camino (mbolicu) varie incisioni orizzontali, poste ad altezze diverse, raccontavano il passare degli anni e la nostra contemporanea crescita in altezza.

Da una porta più piccola vicino la botte del vino, si accedeva, scendendo due scalini, ad un piccolo giardino in cui venivano allevati in libertà conigli, galline oche e altri animali da cortile in compagnia di una decina di tartarughe.

Sulla sinistra era presente una grande “Pila” in pietra leccese in cui venivano lavati a turno le stoviglie o i panni.

Sulla sinistra, appoggiato al muro di cinta, un grande otre in disuso alto circa due metri e sulla sua destra il pollaio.

Nella parte destra, in fondo all'angolo più lontano, una piccola fossa delimitata da blocchi di tufo e attraversata da un asse di legno, costituiva il bagno comune da utilizzare per le esigenze corporali.

Di fronte un grande albero di mandarino, addossato al muro di cinta, forniva nel mese di marzo i suoi frutti pregiati.


Questo è il ricordo che conservo tuttora della corte di Don Ernesto e della casa in cui vivevano i nonni paterni con i miei zii e in cui ho vissuto anch'io e i mie cugini per qualche anno, avendo i genitori emigrati in Svizzera. 
La Corte e la case descritte, lasciate in decadenza per molti anni, sono  state demolite negli anni settanta.

               


sabato 2 marzo 2019

SE GUARDI INTRA ALL'OCCHI TE NU ECCHIU...


SE GUARDI INTRA ALL'OCCHI TE NU  ECCHIU...


Se guardi negli occhi di un vecchio Salentino
ti porteranno in un tempo chiamato ricordo
 percorrendo a ritroso i sentieri della fatica,
 del dolore, della dignità maltrattata, 
ti condurranno in una terra che ieri non c'era; 
 strappata man mano all'incolto,
alla boscaglia e agli acquitrini, 
dove il sopravvivere al quotidiano
faceva parte dei sogni realizzati.
Ti porteranno in un passato 
 scolpito nel cuore,
nell'anima e sul corpo,
con cicatrici indelebili.


“”Se guardi intra ll’occhi te nu ecchiu…””

Riesci cu bbiti…

quanti su stati li sacrifici,
 cu pozza lassare a tìe
 sta beddhra terra osci.

Riesci cu bbiti…

 comu era sta terra na fiata 
  ca osci te tutti è cusì maltrattata,
 era fatta te petre, te màcchie,
te boschi e patule
a dhru nu trasìa 
mancu lu sule.

Riesci cu bbiti…

 le facce scavate 
te cinca ste terre là faticate,
allu sule e allu friddu 
cu zappe pesanti,
 cu sudori, dulori 
e panze vacanti.

Riesci cu bbiti…

le spaddhre ncurvate,
 le frunti rrignate,
e li surchi profondi
sulle mani nnuduse e spaccate.

Riesci cu bbiti…

la fame ngannata 
cu l’acqua te mbile,
 na cicureddhra spicata, 
 nnu stozzu te puccia mpruscinuta,
    nu pimmitoru, nu spunzale
 e na ulia cazzata.

Riesci cu bbiti…

fimmine forti ncuate pe ure
   cu llu friddu e ccu lle munture,
 ca cojiune ulie
cantandu canzuni
sutta all’occhio ngordiu te li patruni.

Riesci cu bbiti...

 ommini  stracchi cu lli zappuni 
buttare lu sangu fra lli cippuni, 
ca coijune petre intra alle igne 
 o sarchiane curvi
brucacchie e cramigne. 

Riesci cu bbiti…

cristiani allu chentu, allu friddu e allu sule
mpizzati pe giurni subbra alle scale,
ca sutane sangu pe rrimundare
e cantane allegri
tajaiandu pe ure
cani, scuperti e nfurrature.

Riesci cu bbiti...

 la dignità catisciata  
 pe la misera paca
 te la “sciurnata”.

Riesci cu bbiti…

la pelle arsa e rizzata
te la gente te mare,
ca rischiava la vita te giurnu e te notte
cu pozza mangiare.

Riesci cu bbiti…

fiumi te lacrime mare comu velenu,
ca la gente ha gnuttutu
pijandu na nave
 o pijandu nu trenu.

Riesci cu bbiti…

 lu core rranfatu
 te mamme rassegnate e ferite
 cu  lli fiji lontanu,
ca se struscìane l’anima e lu corpu,
 te giurnu e de notte,
chianu...chianu.

E mò ca alla fine te lu viaggiu simu rriati
e te intru a ddrh’occhi scavati e lucidi 
simu issuti,
rifletti nu picchi su quiddhru ca è stata
la vita te dhru ecchiu, 
  pe nnui sacrificata,
e porta rispettu a ci 'nda lassatu
stu patrimoniu 
te tuttu lu mundu osci tantu ammiratu
e soprattuttu,
  nu te scerrare mai
 te le radici ca tieni e te lu passatu.



Traduzione:

""Se guardi negli occhi di un vecchio...""

Riesci a vedere...

quanti sono stati i sacrifici,
 per poter lasciare a te 
questa bella terra oggi.

Riesci a vedere...

com'era una volta questa terra
che oggi è così maltrattata, 
era fatta di pietre, di macchie,
di boschi e paludi 
dove non entrava neanche il sole.

 Riesci a vedere...

le facce scavate di chi queste terre le ha lavorate,
al sole e al freddo con zappe pesanti,
con sudori, dolori e pance vuote.

Riesci a vedere...

 le spalle incurvate, le fronti raggrinzite
 e i solchi profondi sulle
 mani nodose e spaccate.

Riesci a vedere...

la fame ingannata con l’acqua dell' umbile,
una cicoria selvatica,
 un pezzo di pane ammuffito,
un pomodoro,
 un cipollotto e un'oliva schiacciata.

Riesci a vedere...

donne forti accovacciate per ore
con il freddo e con la brina,
che raccolgono olive cantando canzoni,
sotto l'occhio ingordo dei padroni.

Riesci a vedere...

 uomini esausti con lo zappone  
buttare il sangue tra i ceppi di vite,
che raccolgono pietre  nella vigna
 o sarchiano curvi 
portulaca e gramigna.

Riesci a vedere... 

uomini al vento, al freddo e al sole
stare in alto per giorni sopra le scale,
che sudano sangue per la rìmonda
e cantano allegri tagliando per ore
rami superflui, secchi o eccedenti la chioma.

Riesci a vedere...

 la dignità calpestata 
 per la misera paga
 della “giornata”.

Riesci a vedere...

la pelle arsa e rattrappita
della gente di mare,
che rischiava la vita
di giorno e di notte,
per poter mangiare.

Riesci a vedere...

fiumi di lacrime amare come il veleno,
che la gente ha ingoiato
prendendo una nave 
o prendendo un treno.

Riesci a vedere...

 il cuore graffiato di mamme rassegnate e ferite
con i  figli lontano,
 che di giorno e di notte,
si struggevano l'anima e il corpo,
piano piano.

E adesso che alla fine
 del viaggio siamo arrivati
e da dentro a quegli occhi
scavati e lucidi siamo usciti,
rifletti un po' su quello che è stata
 la vita di quel vecchio per noi sacrificata.

 Porta rispetto per chi ci ha lasciato 
questo patrimonio 
da tutto il mondo oggi tanto ammirato
e soprattutto 
non dimenticare mai
 le tue radici e il tuo passato.